Simm comm a l'ali e na palomma, sule stann astritte riuscimmo a vulà
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CRONACHE DEI NOSTRI TEMPI

AUTOSUFFICIENZA - BARATTO

Dove funziona il baratto

Vera storia di un baratto

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Il contadino che ha il mestiere da quarant’anni sa che gli olivi vanno potati subito dopo la raccolta, prima della neve. Dopo la grandine e un arcobaleno che ha cancellato ogni muro, si è dato due giorni per finire. Sono caduti con taglio netto, senza tonfi, sull’erba bagnata. Svestiti e diradati così, non si vedevano da almeno tre anni; questa la diagnosi, veloce quanto la cura: stavano inguaiati. Nemmeno il tempo di chiedergli come si fa, che il contadino di mestiere è sceso dall’albero e mi sono accorta di quanto è alto. Vuoi imparare il mestiere, tu? Tu vuol dire che sono donna, e una donna non domanda come si fa. Non volevo mica rubarti il mestiere, gli ho detto, volevo solo, come si dice, condividere. Mi ha prescritto una convalescenza lunghissima: resteranno qui per un anno, prima che li smaltisci tutti. Sai usare la roncola?
Se gli avessi detto che faccio tutto con un seghetto venduto per tagliare le viti mi avrebbe consegnato all’ergastolo dei lavori forzati. Ma la calma è la mia forza, la mia sicurezza e la mia libertà.
Gli olivi potati sembrano braccia che si stendono, appena svegliate. Triste l’aria senza quel grumo di foglie che tanti olivetti oliosi mi ha messo in mano. Dove andranno a rifugiarsi gli uccelli?
Attraverso i pochi rami che salgono si vede l’aria, fino alla fine della mia striscia di campo. La casa della Nonna, in fondo, si affaccia su tutta la vallata. Ha visto tutte le altre case ergersi, e i campi popolarsi. Conosce i nomi di tutti come se glieli avesse dati lei.
L’erba non è più una distesa da corsa; per passare devo saltare da un arbusto all’altro. Non so da che parte cominciare. Comincio dal mezzo. La Nonna mi chiama e la mia corsa a saltelli per raggiungerla sotto al balcone dura mezzo minuto buono.
A Francè, che ci fai cu chillu taglierino? Vieniti a piglià la roncola!
Un punto interrogativo che si scaglia in obliquo verso il basso. Così tagliente che se il suo lancio fa cilecca può tagliare un dito con tutti i suoi ossicini. No grazie, mi piace il rumore del mio seghetto. Za zu, za zu, za zu. Iniziano le scommesse; le case intorno puntano sul tempo e sul modo. Sei mesi, no, un anno, comincerà dai più piccoli, coi grossi non ce la fa, arriva l’inverno e vedi come manda a fanculo la campagna. Za zu, za zu; zac, zac, zac. Giorno dopo giorno la casetta degli attrezzi si è fatta sempre più ingombra. Legna grossa a sinistra in basso, legna media a destra e legnetta piccola a fare coperta.
Hanno perso tutti. Ho cominciato dai rami grossi e in una settimana s’è sgombrato metà campo. I rami piccoli vanno via con un zzzac, grazie alle forbici vendute per tagliuzzare le viti.
Fa freddo, così tanto che il vento non passa. Ogni tramonto è scaldato dal fuoco e musicato dal fric frac degli arbusti bagnati e scoppiettanti. Poi viene sera e la legna a flotte massicce si dirige verso l’inceneritore, la stufa. Rende l’aria casalinga così bollente che non c’è bisogno di alcun Eni gas. La brace mette a seccare olive e bruschette. Il lavoro di giorno continua a ritmo più accelerato del riscaldamento della tramonto e della sera.
Si prospetta neve a bassa quota e non c’è più spazio per la legna in attesa di ardere, i rami piccoli sono diventati una coperta troppo ingombrante.
Esco, come una foglia d’autunno che cade; l’ultima prima dell’inverno.
Da Cristina sono scoppiata a piangere, solo perché, come tutte, io sono sola. Lei mi ha ricordato le sferzate che ancora ha da oltrepassare, le sue. Siamo fatte così noi donne, se una ci mette una lacrima l’altra riempie il vaso fino agli orli.
Il camino di Cristina scoppietta. Mi è rimasto solo un tronco, ha detto, senza fascine il fuoco non sale, si spegne.
Ha continuato, il caldo del camino è lo spirito consolatore dell’inverno. Mettiti vicino alla stufa, guarda il fuoco, e considera quanta fortuna che hai.
I tronchi servono sì, ma senza i tronchetti e i rami secchi e stecchini non c’è da fare molto. Questa cosa mi ha rimesso in sesto. È stato così che si è infilato il baratto.
Tornata a casa ho disincastrato la legnetta che si era intrecciata, ho adunato fascine composte, di tutti i tronchi e i tronchetti ne ho fatto insiemi di forme e misure diverse. Ho infilato per bene il mio regalo nelle cassette raccoglitrici di olive.
Cristina è venuta con il suo portabagagli misura gigante. Le cassette sono entrate tutte.
Ho immaginato il suo camino risplendere di calore e questo mi ha reso felice.
Poi si è levata il cappello di paglia intrecciata da testa e me lo ha messo in mano. Non mi ero neanche accorta che aveva la testa coperta; ho visto solo allora quanto era bello: una fascia viola intorno al giallo paglierino, la visiera ondulata, il tubetto incavato. L’ho messo in testa e mi sono sentita un cavaliere a galoppo sulla prateria.
Ti sta benissimo! Ha esultato Cristina.
Io l’ho preso in mano più volte, e ogni volta che la guardo, questa cosa che si posa a pennello sulla mia testa, riconosco il suo valore che nessuna moneta potrebbe pagare. Una moneta passa e non porta con sé il segno del lavoro donato, non conserva il ricordo dello scambio ricevuto. Questo cappello ha qualcosa che nessuna moneta può rendere. Ricorda il mio lavoro, che non è nulla senza lo scambio, come la mia felicità, che resiste solo se condivisa.
Poi è arrivato il sole, e ho falcettato il campo, za, za, e nel silenzio musicato dal mio lavoro ho sentito un rumore che non veniva da me: pioggia battente. Strano perché non pioveva e mi sono pure toccata la testa per accertarmi che non fossi matta. Il rumore si è rafforzato nel tono di una grandinata e io continuavo a guardare il sole nel cielo azzurro per domandargli, come mai. Finché poi non è arrivato uno stormo, da lontano, si è composto nella forma di un gigante vicino, la comune più accordata che abbia mai visto, sentito; si è posata a un metro dalla mia testa ed è rimasta sospesa, proprio sopra di me. Non sentivo altro che loro. Sai che roba se decidono di defecare tutti quanti assieme adesso? Per mezzo minuto buono la meraviglia non aveva risate da spendere. Finché ho domandato, come mai? È perché lavoravo nel campo? Al diavolo il lavoro, è perché sei bella e pura. Detto così, sono ripartiti, verso nord.
Le case vicine hanno sentenziato che non è questo il tempo degli stormi. Io sono contenta, perché gli uccelli un rifugio lo hanno trovato; lo trovano sempre.
Infine è arrivata la neve, che ha imbiancato tutto ciò che un rifugio non lo aveva ancora trovato. Anche le pareti hanno fatto silenzio.

COLTURA
 
Crediti e Contatti
© 2010 Francesca Picone