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Un altro pioniere. Di David Foster Wallace. Recensione, o meglio: ecco perché mi fa impazzire D.F. Wallace

Attenzione, nella foga di riportare ho inavvertitamente riassunto tutto, anche il finale. Avvertenza: la recensione va solo sbirciata, il godimento vero è il racconto , presente nella raccolta "Oblio" edito da Einaudi.

Questo racconto esce fuori dalla finzione di un anonimato che non ha nemmeno nulla di eccezionale tanto da firmare la storia riportata con un corsivo “anonimo” tra parentesi. Il motivo per cui vado pazza per David Foster Wallace è la sua ironia sottile come un nastrino che si libra in apoteosi nell’aria stantia della ricercatezza scontata di luoghi comuni, riverenze di massa, superstizioni come fragilissimi bastoni di appoggio su cui si poggia tuttavia un mondo intero (Tuttavia, è proprio la parola con cui si apre l’incipit, ma si tratta di un “tuttavia” che non soggiace alle contraddizioni mondane vanitose quanto un pettegolezzo, semmai le cavalca da domatore esperto, ci ride sopra e ne esula in tutti i modi, salvo sapere benissimo che la massa portante dell’ascolto finirà con il volercelo mettere dentro).
Qui dobbiamo immaginare un’aula di riunioni, un microfono e la richiesta implicita, fatta dal pubblico a chi appunto prende voce dietro al microfono, di un senso rivelatore, un messaggio attraverso la presentazione di un exemplum. Un’aula di cattedratici e ricercatori in filosofia, un’umanità di un certo livello economico e culturale che si trastulla nel cogliere perle di verità da fatti comuni. L’ironia è rivolta quindi in primis in beffe alla “cornice contestuale o l’antecedente deittico presenti” qui, in questa ambientazione di sfondo appena accennata, assente invece in questa storia di passaparola, che il protagonista (ora dietro al microfono) ha sentito raccontare da un amico che ha sentito da un conoscente, che a sua volta ha origliato raccontare su un volo di linea ( un volo della United States non prescelto ma subito a causa delle condizioni atmosferiche) da un passeggero più giovane, non di madrelingua, ad un altro di difficile comprendonio, nemmeno dal principio ma nel bel mezzo del racconto fatto da uno all’altro. Il punto di vista che origlia la storia è seduto sulla fila centrale più vicina ai rumori del motore, ha presente davanti a sé solo due nuche anonime con niente di eccezionale. Se il conoscente dell’amico del protagonista ha potuto sentire è solo perché chi raccontava la storia, da non madrelingua e convinto che lo straniero capisse meglio un tono di voce alto, scandiva bene ogni parola. Uno strabordìo di elementi che ci obbligano a presumere la condizione di incertezza, l’impossibilità di una comprensione esaustiva, la non liceità di una richiesta rivelatoria, di un’effettività quanto meno formale. “Annunciazione formale” “Aiuto Soprannaturale”, “Resurrezione archetipa” e simili, è presto detto, non vogliono esserci nemmeno dietro le righe di questo racconto, se non, semmai, proprio in fondo alle righe, come personaggi antagonisti.
Ed ecco la storia: “il racconto di un certo bambino nato in un villaggio paleolitico molto primitivo chissà dove”. Chi volesse già inquadrare questa che si voglia parabola in un contesto ambientale preciso deve quindi desistere. Un villaggio che si basa sulla sussistenza di caccia e raccolto primitivo. Un bambino iperdotato, non soprannaturale o messianico, termini che il ciclo (e qui il ciclo potrebbe essere un codice di gruppo, presumibilmente esoterico e riconoscente dei cicli lunari, per definire un percorso comune degli aderenti di una combriccola accademica di ricerca di perle di verità) avrebbe usato, ma giusto, ingegnoso, si presuppone perché il passeggero più giovane del volo ha l’aria di essere un ricercatore di università.
Secondo una versione grezza del Qi questo bambino si dimostra oltremodo superiore. Già le nuche che non hanno niente di speciale da cui si dipana il racconto, poi la trasposizione del nostro concetto di Qi in un ambiente primitivo e grezzo, fanno la loro parte nel magico incasellamento di elementi che scatenano in me che leggo una grossa risata in timbro ultra sottile. Così sarà per ogni terminologia moderna accorpata a questo racconto paleolitico. Annoto con altrettanti sorrisetti che il villaggio pone al bambino le domande concernenti gli usi, le abitudini, le sapienze e le credenze del villaggio, di cui già detenevano la risposta (per averla formata nel corso delle generazioni), ed è quando il bambino rende risposte corrette anche sugli dei che decidono di metterlo a dirimere questioni e conflitti che hanno a che fare con una mentalità piccola, la loro. L’equanimità delle risposte che non scontenta nessuno, poi, è la ciliegina sulla torta grazie alla quale la decisione è presa. Questo bambino è così particolare che gli abitanti non possono inquadrarlo neanche nella casta degli sciamani e decidono così, dopo averlo strappato ai genitori prima così fieri di questo bambino che con le sue prontissime risposte alle domande adulte faceva divertire tanto, di metterlo su una predella di vimini rialzata posta al centro esatto del villaggio, negare la veridicità della versione genitoriale che lo voleva messo al mondo da un atto sessuale e un parto e farlo discendere direttamente dagli Spiriti Oscuri della foresta (in questo villaggio il nero rappresenta il bene, il bianco e la sua assenza di colore rappresenta invece il maligno). Il ciclo qui è quello lunare che scandisce la periodicità con cui gli abitanti si mettono in fila per porre domande al bambino prodigio e riceverne risposte. Si mette in moto così il meccanismo sociale che mette in fila per ordine di casta i richiedenti che si presentano al bambino con offerte che gli permettono di vivere senza “dipendere” dai genitori. Questo bambino diventa intanto il motivo nascente di uno scambio commerciale che fino ad allora in quel villaggio non era mai esistito, potendo ciascuno procurarsi da solo ciò di cui aveva bisogno. Il bambino trascorre la sua infanzia sulla predella mentre l’economia del villaggio si fa più ricca e complessa. Nasce una nuova figura professionale, quella dei consulenti, abili nello strutturare le domande di modo tale che la risposta potesse avere un valore il più alto possibile, fino a domandare come deviare il corso del fiume invece di doversi portare al fiume per prenderne l’acqua. Qui l’incertezza torna di scena con le nuche anonime, il motore dell’aereo che rumoreggia e la non certezza che le domande citate siano proprio quelle originarie e non di invenzione del narratore conoscente dell’amico, ed è proprio nel mezzo di questa incertezza che entra in scena un villaggio dominante vicino “in combutta con i diabolici Spiriti bianchi” presumibilmente intimorito di un tale” balzo quantico” del sottoposto. Finché una delegazione del villaggio dominante senza nome sopra dei trattini vuoti non prende e va a presentarsi in udienza al proprio sciamano che usa dei teschi come pentola personale e come pitale. La risposta dello sciamano, data l’incertezza della parola proveniente da una nuca che si sa solo dai capelli neri e ben rasati, ha tre varianti. Nella prima lo sciamano si trasporta di fronte al bambino con l’offerta di un frutto misterioso con tanto di geroglifici e una domanda sussurrata. Al che, il bambino, che al momento ha dieci anni, si ritira in stato catatonico, con una sub versione che lo vuole solo in rifiuto di rispondere ad altre domande degli abitanti del villaggio. Nella seconda variante c’è una visita di Stato, un summit pubblico entro il quale viene consegnato in dono il frutto. La terza variante non prevede nessuna visita, né di Stato né in incognito, ma la preveggenza secondo la quale, compiuti che abbia il bambino gli undici anni, raggiunto “il compimento sovrannaturale della sua entelechia”, sarà lo stesso progresso soprannaturale ad annientare il villaggio. Dopodiché torneranno tutti a cacciare. Una quarta sub-versione del giovane narratore vuole che sia l’avvenente figlia di un abitante del villaggio ad aver reso catatonico o non rispondente il bambino. In ogni caso, il bambino, all’età di undici anni, rifiuta di rispondere alle domande.
Secondo Atto dell’exemplum. Il bambino si risveglia e mostra una “Gestalt completamente diversa”. Non si limita a rispondere alle domande circoscritte o meno degli abitanti, nel modo che prevedeva l’usanza, cioè “quasi idiota e ciberneticamente letterale” ma aggiunge altre domande e, soprattutto, rifiuta la spicciola cultura ristretta del villaggio che pone le domande. Il mestiere o la casta dei consulenti piomba in una cruenta crisi. Con le sue domande - risposte il bambino mette in crisi anche le credenze degli abitanti del villaggio che si svelano essere a loro stessi niente altro che degli “scimmiottamenti”. Il bambino diventa prolisso, sembra parlare a vanvera, ma gli abitanti non sono disposti ad ammettersi e nemmeno vogliono deporre il bambino dalla predella essendo questa fila di questuanti un’abitudine tale e quale per senso di rassicurazione a quella che li vuole credenti negli dei. Lo scombussolamento con cui ogni abitante se ne torna dalla domanda posta è tale che solo il costume sociale tiene in piedi la fila. Quando il bambino poi diventa irritabile e prende a rispondere con quelle che hanno tutta l’aria di essere strigliate e rimostranze, chiedendo “che senso ha tutta quella messinscena” chiedendo “che cosa gli fa credere che lui possa aiutarli se non hanno nemmeno una vaga idea di ciò di cui hanno veramente bisogno”, a quel punto l’angoscia, il disorientamento culturale fa sorgere in loro “sentimenti di antibambino”. Ai consulenti resta il solo lavoro di carpire e desumere cosa sia successo veramente al bambino e cercare quelle domande che lo mettano alle strette.
La retro-ambientazione contribuisce al passaggio narrativo della che si voglia parabola e un maltempo imprevisto costringe l’aereo ad un atterraggio in destinazione imprevista.
Finalmente, nella generale ma non completa riottosità a mettersi in fila, un abitante della casta dei guerrieri domanda cosa si possa fare per sconfiggere il vicino villaggio dominante e la risposta del bambino lo rende così vacillante e barcollante che gli abitanti cominciano a pensarlo come uno degli Spiriti Bianchi per averne quindi una tremenda paura. Qualcuno pensa di ucciderlo ma nessuno ne ha il coraggio. Una non azione taoista prende il sopravvento su ogni decisione nella speranza che, deprivato, il bambino muoia di fame. Così non avviene, capacità di digiuno e conserve fanno la loro parte. Si fa strada la possibilità che lo sciamano del villaggio dominante lo abbia avvertito per cui egli abbia potuto in tempo fare riserva di conserve per i tempi a venire. A questo punto “l’intera comunità si arrese e abbandonò il villaggio”. Il distaccamento di un’èlite di guerrieri, dietro l’esodo silenzioso, dà fuoco al villaggio. Alcuni guerrieri rimasti indietro si voltarono e videro “il ragazzo immobile ancora seduto”. Nel finale questo fuoco sembra rincorrerli “un grande incendio rapace che cresceva e guadagnava terreno per quanto le caste più elevate si prodigassero a guidarli”.

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