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Sulla soglia

QUESTA FU UNA BOZZA. LA VERSIONE EDITA, PUBBLICATA DA EVALUNA, NAPOLI, E' IN VENDITA, NELLA RACCOLTA DI RACCONTI, IN FUGA

Sono entrata nella vita quando i tempi del grande boom economico erano appena finiti, sentivo l'odore lasciato dalla storia alle sue strade, che ne conservavano il ricordo distratto. Troppo tardi.
A scuola le contestazioni già si affievolivano, non c'ero io al tempo delle occupazioni e della resistenza passiva alla polizia, che veniva a sgombrare con manganellate e sangue versato sui pavimenti.
Non c'ero ai tempi della lotta coi fascisti, quando loro, i comunisti, hanno costruito il futuro a noi giovani senza storia.
Arrivo sempre troppo tardi, quando la festa è già finita, e sento le ultime voci residui della gioia passata, che raccontano e ridacchiano. "Tu non puoi capire, tu non c'eri" mi dicevano, "tu eri ancora ferma, sulla tua soglia, aspettando che l'aria si svuotasse, che tu potessi entrare, minuta, senza essere osservata".
Sulla soglia, prima di bussare il campanello, girare la maniglia ed entrare, rimanevo lì, fissando la porta blindata di casa mia, e pensavo di rimanere così, per sempre, senza entrare.
Lei veniva ad aprirmi, dopo qualche minuto, dopo aver sbrigato i suoi affari, che erano sempre tanti al momento in cui bussavo. Lei mi apriva ed io entravo, ma tutto di me rimaneva fuori, aldilà della soglia di casa mia.
Sulla soglia, trattenendo il respiro, che non si potesse sentire la paura che avevo dell'aria che respiravo, che non si potesse notare il mio sguardo impaurito e solo, che non si potesse udire il cuore che batteva all'impazzata, appena bussavo il campanello, giravo la maniglia, aprivo la porta, ed ero lì, dentro la mia casa. La mia casa non era più casa mia. Era la sua casa, da quando Lei era entrata e aveva portato con sé la sua rabbia, la sua violenza e suo figlio. La mia casa non era più il rifugio familiare, le mie sorelle mio padre e io, la mia casa era il silenzio, tutto fermo: non fiatare, non sentire, non aprire le porte del tuo cuore ferito.
Sulla soglia, in bilico tra il dentro e il fuori, la vita si regge su quel filo.
Sulla soglia, per non disturbare, per non lasciar entrare nessuno neanche te stessa, nel tuo cuore ammutolito.
Sulla soglia della vita gli altri non fanno paura, camminano distanti, li puoi vedere come un film.
Sulla soglia gli altri non ti chiedono come stai, non ti chiedono chi sei.
Quando non conosci il volto che ti ha guardata mentre aprivi gli occhi alla vita, quando non ricordi la voce che ti ha cullato nei tuoi sogni d'infanzia, non puoi dire chi sei. Non puoi dire chi sei se tua madre è morta che avevi appena un anno.
Coprivo il mio corpo di panni per nascondere quello che avevo dentro, vergogna. Il mio corpo cresceva ed io continuavo a coprirlo. Coprivo il mio corpo. Ma il cuore sentiva freddo, e tremava.
Tremava alla voce di Lei, sussultava al suo richiamo ed anche il silenzio che scendeva nella mia casa quando Lei girava la chiave apriva la porta ed entrava, anche il silenzio era attesa di un nuovo lampo, la sua voce.
La sua voce mi entrava nelle ossa per rimanere lì per anni, per sempre.
Un giorno sarei andata via, avrei preso la strada che mi avrebbe portato lontano, avrei camminato scalza per le vie del mondo toccando con i piedi la mia unica madre, la terra. Un giorno sarei andata via, nuda, lasciandomi indietro i panni della vergogna. Quel giorno sarebbe arrivato, ed io aspettavo.
La nostra casa era al settimo piano di una palazzina costruita negli anni della contestazione. Mio padre la pensò prima ancora di abitarla. Il suo sogno di libertà. Ai costruttori non diede alcuna indicazione, se non per il terrazzo. Doveva essere grande. E così fu. Era grande due volte la casa stessa. Si vedeva l'eremo dei Camaldoli e si sentiva il silenzio che arrivava come un' onda di pace a casa nostra, per poi ritirarsi e fare spazio alle nostre grida, canzoni e risate. Mio padre ci indicava le stelle nel cielo, mostrandoci le costellazioni con i loro nomi. Io ne fissavo una, una sola stella lucente, lì doveva esserci mia madre. Quando Lei arrivò il terrazzo fu dimezzato per far posto ad una cucina spaziosa. La parte rimanente si riempì di piante, senza fiori, rampicanti, il cielo non si vedeva più. Nostra madre scomparve dalla nostra vista e dai nostri pensieri.
Dal corridoio che si apriva all'ingresso si diramavano le stanze. Le nostre nuove celle. La porta d'ingresso. Il mio sogno di libertà.
La nostra casa si riempì di silenzio. Le voci che avevano animato quella casa per tanti anni, scomparivano. Giorno dopo giorno.
Prima che Lei venisse giocavo con le mie sorelle. Giocavamo alla lotta senza farci male. Coprivamo la bocca dell'ultima che era rimasta ferita nella baruffa con un cuscino, perché non gridasse, perché mio padre non sentisse e non avesse a preoccuparsi. Contavamo dieci secondi, la vittima usciva dal silenzio e dal cuscino, prendeva a ridere ed insieme ricominciavamo a saltare sui letti, a cantare ed a picchiarci, senza farci male. Sara l'aveva sempre vinta, era la più grande. Vanda rosicava di invidia. Era la mia gemella. Correvamo per il corridoio, mio padre ci chiamava, ci guardava e sorrideva, scattava foto e suonava le sue canzoni per noi, fuori al terrazzo.
Le voci stridule e bianche di Sara e di Vanda, i litigi e gli screzi, le nostre braccia che si azzannavano e poi si abbracciavano, divennero un'eco lontano presto dimenticato.
Le mie due sorelle mio padre ed io ci volevamo bene, non lo sapevamo, prima che venisse Lei. Il nostro nuovo amore era un patto, sigillato dalla paura.
Il silenzio ha la capacità di smussare i ricordi. Il silenzio è il principio base della tolleranza. Ricordare i brevi tempi felici che avevamo vissuto nella nostra casa mi faceva soffrire, ben presto smisi di farlo e non sapevo più di essere infelice.
La accompagnavo a fare la spesa. Gli scaffali erano pieni di leccornie e capricci, mi sforzavo di non guardare. Le facevo i pacchi e portavo le buste. Mi sentivo utile, mi sentivo sua.
"Non voglio più lavorare" mi diceva, "non voglio neanche più andare a fare la spesa".
Eravamo sulla tangenziale, la macchina correva, all'altezza dello svincolo che portava a casa nostra.
"Prendi un'altra strada, andiamo via insieme" le dicevo.
Lei sorrideva. "Come facciamo a vivere senza soldi?"
"Troverò un lavoro, so fare tante cose".
Per un attimo mi sentivo sua complice, in quello stesso attimo Lei girava lo svincolo ed entrava nel parco, parcheggiava la macchina ed io prendevo le buste e le portavo sopra.
Le mie sorelle ed io innaffiavamo le piante che avevano coperto il cielo. Senza parlare. Apparecchiavamo e chiamavamo gli altri in tavola, bussando alle rispettive stanze.
Consumavamo il pasto in silenzio. Lei si rivolgeva al figlio.
"Ti piace?"
"L'altra volta l'hai fatta meglio"
Non diceva niente.
Mio padre guardava la televisione.
Lei guardava nei nostri piatti.
"Non vi piacciono proprio le verdure?"
"No, grazie".
"Io posso mangiare solo queste"
Noi la guardavamo con compassione forzata.
Mio padre continuava a guardare la televisione.
Noi finivamo la pasta e sparecchiavamo.
Ognuno si ritirava nella sua stanza, noi tre nella nostra.
Un giorno vidi Vanda piangere nel suo letto, non c'era alcun motivo, niente che fosse successo nell'arco di quella giornata, ma lei era sul letto e piangeva. Lei non c'era, ma il silenzio incombente evocava il suo prossimo ritorno. Vanda piangeva. "Perché piangi?"
"Mi manca la mamma".
La fissai senza dire niente.
"A te manca la mamma?" Mi chiese.
Risposi di sì, ma sapevo che non era vero, non ricordavo nemmeno quando avevo smesso di pensare alla mamma.
Fu la prima e l'ultima volta che il nome di nostra madre varcava la soglia di casa mia.
I parenti di Lei venivano spesso a trovarci, a raccogliere la falsa testimonianza di una famiglia felice.
Antonio era raggiante. Il più piccolo, un anno in meno di me e di Vanda.
"Ti ricordi quando mangiavi con due cucchiai e come divoravi tutto sin da piccolino?" Gli dicevano. "Guarda le foto".
Tutte e tre guardavamo le foto dell'infanzia coccolata di Antonio e ci sforzavamo di ridere compiaciute.
"Voi mi siete care come delle nipoti, delle nipoti di sangue". Diceva la nonna schioccando le nostre guance, e noi sorridevamo, cercando di mantenere il sorriso intatto quanto più a lungo possibile.
"Volete bene a vostra madre, vero? Lei vi tratta come delle figlie sue, delle figlie di sangue". Assentivamo, assentivamo sempre e sembrava quasi vero.
Quando scendeva la sera, le luci erano spente ed anche Lei era andata a dormire, io e Vanda, la mia sorella gemella, ci sedevamo sul letto, una a fianco all'altra.
"Mi vuoi bene?" Mi chiedeva Vanda guardandomi.
"Sì". Le stringevo la mano.
Il corridoio era sempre vuoto. Quando sentivamo i tonfi nel muro ed i rumori e le grida di Lei che provenivano dalla camera di mio padre, sapevamo cosa succedeva. Avevo visto una volta mio padre guardarla mentre Lei gli sbatteva la testa contro il pavimento. La guardava, senza rabbia, la scrutava, aggrottava le sopracciglia cercando un segno di riconoscimento, serio, cercava di capire, con il corpo steso sul pavimento, mentre Lei vi si avventava contro.
Nessuna di noi usciva per vedere cosa stava avvenendo. Lo sapevamo e rimanevamo immobili nella nostra stanza sperando che la porta non si aprisse, attendendo la fine di quei tonfi sul pavimento. Antonio passava per il corridoio e andava in cucina, apriva il frigorifero, prendeva qualcosa e tornava alla sua camera. Mi chiedevo cosa pensava mentre il corridoio era vuoto, se pensava. La fine prima o poi arrivava, ed era il silenzio. Si udivano voci allegre di risate, voci lontane e sconosciute. Era il televisore nella stanza di Antonio.
Un altro giorno era trascorso. Un giorno in meno verso la nostra crescita. Aspettavo ancora il giorno della fuga, intanto, tremavo al suo cospetto.
Vivevamo i tempi della guerra fredda. La guerra non c'era, ma era presente nei miei sogni. La notte di Capodanno scendevamo giù per le scale del palazzo del nostro settimo piano per far visita ai parenti. Si sentivano i rimbombi degli spari e dei botti che dovevano festeggiare il nuovo anno. Immaginavo che quei botti fossero le bombe gettate da un aereo nemico al nostro palazzo, alla nostra casa.
Eravamo in guerra e quello era il rumore di questa guerra.
Scendevo le scale immaginando di correre verso un rifugio antiaereo. Correvo sempre più veloce fino al piano terra e quando ero fuori, vedevo il fumo e i fuochi che coprivano i palazzi.
Non era la guerra, era il primo giorno di un nuovo anno ed io avevo imparato a correre, ma non a fuggire.
Ricordavo il quadro di proletari in marcia che si vedeva una volta nella stanza di mio padre. Guardavo la porta e cercavo di infondermi coraggio, ma ero sola e la paura mi stava coprendo il corpo come una cancrena. Avrei preferito mille volte le lotte e le contestazioni. Più facile quando si è in tanti, uniti dai cori e dalla musica. Quali volti mi aspettavano, appena varcata la soglia di casa mia?
Seppi di S. Francesco e della sua fuga da casa e divenni francescana. Il mio stesso nome mi confermava, Francesca, non era poi il mio destino? Mio padre non condivideva, lui era comunista. Avrei voluto sposare la sua causa, ma le folle che una volta lo tirarono fuori di casa sua, oggi, non c'erano più. Guardavo la porta e pensavo all'aria pulita di campagna, la notte e le stelle che mi avrebbero accompagnato. Sarei salita sull'eremo, a piedi, ed avrei chiesto al cielo ed al fruscio delle foglie quale doveva essere la mia nuova strada. Le strade, di notte, sono piene di gente semplice, pensavo, non sarei mai stata sola.
Le nuove immagini che ancora vedevo oltre la porta di casa mia, mi davano il coraggio di alzare la testa, e di risponderle. Le parlavo di dialogo e di pace e Lei si infuriava. "Adesso rimani qui finché non torna tuo padre", diceva. Avevo la mia bandiera, e non temevo più niente. Basta una semplice bandiera, vera o fittizia, per smuovere masse e corpi pesanti verso la libertà. Io avevo trovato la mia. Dio.
Veloce. I miei passi sarebbero corsi giù lungo le scale, a due a due, lungo gli scalini del mio settimo piano. Avrei accorciato saltando le curve su per il passamano. Un attimo. Eterno.
Piccola. Nessuno mi avrebbe vista prima che fossi scappata via lontano.
Agile. Nessuno mi avrebbe presa, sarei volata giù per la strada e la notte, la mia vita.
Coraggiosa. Avrei oltrepassato il corpo di Lei, seduta vicino la porta d'ingresso, che diceva: "Vedrai, quando torna tuo padre". Scattante. A scuola facevo i duecento metri come un fulmine.
Prima. Nessuno riusciva a capire com'è che volassi come una freccia.
Determinata. Sarei uscita entro la sera.
Confusa. Guardavo la porta mentre mio padre mi osservava, dolce, e il mio cuore andava in fiamme. Il suo sguardo mi spegneva il fuoco e la voglia di scappare. Ero in gabbia.
Ammortita. Non avevo più risorse e la porta si era fatta pesante, come il mio corpo, che rimaneva fermo, incapace di muoversi. Restavo inerte a guardare la porta.
Chiusa.
Abbandonai l'idea di Dio quando mi accorsi che portavo una bandiera bianca.
Ero nell'atrio del mio palazzo e, come al solito, aspettavo l'ascensore che mi avrebbe portato al settimo piano. L'ascensore aveva uno specchio al suo interno e io non potevo fare a meno di guardare e di cercare, negli attimi che precedevano l'arrivo, di aggiustare l'immagine che si profilava dinnanzi a me. Inutile. Sola di fronte allo specchio ed alla paura che quel volto non andasse bene. Non andava mai bene. Per quanto cercavo di aggiustare il sorriso, i capelli, lo sguardo e le sopracciglia, quel volto non andava mai bene. Traspariva insicurezza. L'ascensore arrivava al settimo piano, sempre, troppo presto.
Quella volta non entrai subito. Pensai al mio Dio un'ultima volta e decisi che non l'avrei più pensato.
Lasciai il mio Dio al piano terra e salii, settimo piano.
Il mondo mi apparve orribile.
Guardai l'ascensore con le porte chiuse a piano terra ed entrai. Sette piani. L'ascensore saliva ed io volevo tornare indietro. Non potevo fermare il tempo, né i gesti consueti che mi portavano a casa. Premere il pulsante, settimo piano, sentire il tonfo dell'ascensore che arriva, aprire le porte, uscire, chiudere le due porte interne, poi quella esterna. Il pianerottolo. Non invocavo già nessun Dio. Sola davanti alla porta di casa, persa nel mio mondo assurdo. Ho sempre avuto un problema con le porte. Trovo terribile sia entrare che uscire.
Lei entrò nella mia stanza. Senza bussare.
Piegai la testa verso la scrivania ed i miei libri e continuai a leggere.
Si avvicinò a me, sentivo i suoi passi. Il suo sguardo e la sua rabbia su di me. Leggevo Proudhon. "Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato…".
Eretta sul mio corpo piegato, fissava la mia testa bassa.
Continuavo a leggere, senza alzare la testa dalle parole che adesso mi ballavano davanti agli occhi.
Mi insultava. Le sue parole mi foravano le orecchie.
Fissavo le mie parole sulla carta consumata dellibro. "…Schernito, dileggiato, ingiurato, disonorato…".
"Sporca". "Puttana". Ripeteva.
Non alzai la testa verso di lei, vivevo adesso la mia lotta e dovevo vincere.
"Vagabonda, barbona".
Vivevo il mio momento di resistenza passiva.
Chiamò mio padre.
Le parole sul libro si facevano sempre più grandi e sfocate. "…Venduto,…".
Disse a mio padre che lei mi aveva cortesemente chiesto di pulire la stanza ed io mi ero rifiutata.
Mio padre farfugliò qualche rimprovero. "…Tradito…".
Lei aprì l'armadio e buttò tutti i miei vestiti per terra, nel corridoio.
Mio padre le chiese: "Perché lo fai?"
Lei disse: "Per farle vedere che la sua camera è una merda"
"…Ecco il governo, ecco la giustizia, ecco la morale".
Chiusi il libro, alzai la testa verso di Lei ed urlai. "Non sei nessuno, tu non sei nessuno!"
Si avventò su di me, sui miei capelli, sulla mia faccia.
Mio padre intervenne, troppo tardi. Non potevo muovere il collo. Tremavo. Non parlai.
Uscirono dalla stanza. Scoppiai a piangere.
Mio padre tornò con una boccetta di valium.
"Prendilo, ti sentirai meglio"
"Non sono mai stata meglio".
"Se vuoi continuare a convivere non devi replicare"
"Non voglio continuare a convivere"
"Dove andrai?"
"Un'amica mi ha chiesto di prendere casa con lei"
"Come farai con i soldi?"
"Lavorerò"
Rimase in silenzio per un po', poi disse "va bene."
Quando Sara tornò mi vide fare le valigie, capì.
"Vai via?" Mi chiese.
"Sì". Le risposi.
"Non sai a cosa vai incontro"
"Vado incontro alla libertà"
"Hai pensato ai sacrifici che dovrai sopportare?"
"Sì"
"Non saremo più insieme"
"Continueremo a vederci"
"Non sarà più lo stesso"
Non dissi niente.
"Non hai pensato a noi, a papà?" Continuò.
Non le risposi. Continuò a guardarmi.
Rividi Vanda dopo un mese, quando tornai a prendere le ultime cose. Ascoltava la musica, seduta sul tappeto, a gambe incrociate vicino al balcone, guardava fuori. Non si voltò.
"Ciao, ci vediamo" Le dissi prima di andarmene.
"Ciao" mi disse. Aveva gli occhi lucidi.
Nel buio, stesa sul letto della mia nuova casa, assaporai la mia prima sigaretta.
Rividi le immagini, i visi, le parole, i sorrisi e le idee che un giorno mi avvinghiavano, mi possedevano, senza armi, senza tregua.
Osservai tutto come un quadro lontano. Sorrisi. Vidi il mio corpo steso e la luce della mia sigaretta accesa. Ero ferma. Ero io. Sola, con me stessa, niente poteva più toccarmi. Non avevo più bisogno di correre.

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