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In marcia

"Il cattivo è lo scarto del miglioramento" (Zigmunt Bauman).

È Dicembre, duemila e sette anni dopo di Cristo, i buoni passi natalizi che affrettano le strade e intasano via Foria hanno pacchi regali che non contengono alcun pensiero sulla spazzatura. Archi di lampadine attraversano e tendoni di giocattoli costeggiano, le strade affollate solo per accoglienza, non si domandano dove vanno a finire gli scarti.
Ma sul marciapiede c’è una piccola marcia: caro bambino Gesù, dall’ammonnezza salvaci tu!
Sembra che paventano un assedio in arrivo. Non bloccano il traffico, per farsi notare hanno torce e maschere di scheletri umani. Black bloc? No. Vanno lenti. Una processione tardo medievale? Il capofila ha una barba bianca, veste una stoffa africana e porta una sciarpa arcobaleno al collo. Forse ha fatto un movimento tutto da solo e qualcuno lo segue.
Caro bambino Gesù, dall’ammonnezza salvaci tu!
Scusi, chi sono quelli?
Una signora appena uscita dal supermercato stava per comprare un giornale, invece io le indico là e non voglio sapere dove si trova una via.
Quello, è Alex Zanotelli, il prete della Sanità, dice, e sta per comprare il Mattino ma getta un ultimo sguardo al marciapiede opposto per vedere se mi ha detto bene. Sì, ma tu guarda un po’. E siamo tutte e due incredule; lei sdegnata, io felice.
Ora fanno tutto un tratto in silenzio e le torce si alzano a commemorare. Eccezionali. Perché non vado con loro?
Sono dall’altra parte della strada. Questa non è già più la mia terra. La mia terra fu un sogno sospeso dal suolo, poi la pioggia e la semiveglia nell’odore che esala, i bagagli già fatti e la Prinz pronta a partire. La persi quando la voce adulta disse, torniamo a casa. Scesi dall’amaca per tornare a una casa non mia.
Ho la valigia e nessuna torcia da accendere, e poi al seguito di un prete no.
Caro bambino Gesù, dalla monnezza salvaci tu! La litania prende più voce, compatta. Li seguo dalla mia parallela e penso che in fondo anche io con le rotelle della valigia in bilico sto marciando. Vado via con fracasso.
Sopra l’orto botanico più internazionale d’Europa c’è un vicolo che è il paradiso, ma così stretto che solo tre cognomi si sono infilati fin sopra, e si sono messi a guardia. Hanno un commissario amico e merce da vendere; chi consuma deve farlo da loro. C’era un cartello sul portone del mio condominio: non sbattere la porta, accompagnarla piano. E io mi sono tirata la porta dietro, con forza; i vetri si sono rotti. La valigia trascinata per le scale in discesa ha reso una botta per ogni gradino. Le signore che si affacciavano e mi seguivano per richiamarmi aumentavano man mano che raggiungevo la fine del vicolo. Giù a tutto uno stridio mi ha graffiato la schiena e mi sono girata. La signora che ha il piano più sopra di tutte mi ha indicato il vicolo e mi ha detto, guarda. Mbè? Ti s’è rotta la busta. Ho seminato fiocchi del cuscino che volevo buttare. Non fa niente, le ho detto. Si è girata indietro verso le altre, che volevano sapere, dice che non fa niente, ha detto.
Piazza Cavour; il mio passo più svelto li ha allontanati e per aspettarli senza darlo a vedere entro in un bar.
Mi da un Bayles?
Con ghiaccio?
Questa domanda ha sempre il tono di un rimprovero.
Senza ghiaccio.
Lo guardo diritto negli occhi questo cameriere moralista e pure un po’ maschilista. Lo fisso, ma non lo faccio con lo sguardo duro, da accannata, gli sorrido pure. E poi, quando ho finito il mio sorseggio veloce e il gruppo di manifestanti si profila di fronte, gli chiedo, al barista, hai visto fuori? Ma lui non ha visto e si affaccia controvoglia solo per vedere se qualcosa gli ostacola l’entrata dei clienti, ma niente. Se ne torna come se niente fosse.
È Alex Zanotelli! Gli urlo, caso mai non lo avesse riconosciuto.
Lui mi guarda come se fossi una black bloc appena defilatasi da una marcia per scassare un obiettivo innocente, e poi dice all’aria che lo affianca, che tempi, non è manco più un prete quello lì.
Scendono via Roma, la mia stessa direzione. Li seguo dalla mia parallela. E penso che in fondo abbiamo questo in comune: siamo visti come la degenerazione in persona. Solo che poi loro vanno dritto, verso il mare. Io giro per Corso Umberto e la stazione. Il Vesuvio visto da lontano non è più una salita di fuoco nascosto, ma una discesa verso il mare, invisibile. Mentre vado via da Napoli piango, ma dura poco. Il contatto con me che sente è breve. Il Vesuvio ha lasciato il posto a sfere di cemento, enormi, saranno fabbriche? Il mio cuore dorme sotto il cuscino che la ragione impone, come se poi non soffrire significasse volersi più bene.
Insieme al futuro arriva anche il condizionale. L’inverno che mi ha accolto con una salita tutta profumata di camini accesi passa la mano all’estate e dalla televisione a muro della mia piccola camera gialla spersa nel verde guardo il Tg nazionale. Una distesa di monnezza al posto di via Caracciolo senza mare. Non è vero, vorrei scendere in strada a urlare, quei sacchetti sono lo show per il Tg serale! Ma la barista di qui vuole sapere della camorra e non sa dello Stato. Chi mi vuol bene mi consiglia di spegnere la tele, magari per meditare, farmi scaldare dal sole e smettere di fumare. Io penso a come sarebbe stato il mio mondo se avessi attraversato, quella volta. Magari si aggiungevano altri emigranti, passo passo le valigie in marcia aumentavano, riuscivamo a sventare la farsa, avremmo anche bonificato il mare. Magari avremmo valutato gli effetti sinergici di un orto nei giardinetti di piazza Cavour. Magari senza più affari da trattare insieme, polizia di un certo tipo e camorra di tutti i tipi sarebbero esalate avvelenando l’aria per l’ultima volta e un giorno al mese avremmo bruciato la metà dei fiori di canaponi piantati ai bordi, in armonia col cielo e per purificare l’aria, e l’altra metà l’avremmo assaggiata, seduti in cerchio per terra. Magari pure i cappucci dei black bloc senza polizia e senza camorra sarebbero esalati, e avremmo bruciato fiori un mese anche per loro, o con loro.

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